Remissioni complete stabili possono esser ottenute nel 90% dei pazienti con leucemia acuta linfoblastica (LAL) recidivata o resistente trattati con l’infusione di linfociti T autologhi trasdotti con un recettore antigenico chimerico diretto verso l’antigene CD19, utilizzando un vettore lentivirale. Questi i risultati ora pubblicati dello studio CART19 (Maude SL et al. N Engl J Med, 2014;371:1507-17), condotto su 30 pazienti, di età compresa fra 5 e 60 anni, con LAL CD19+ in recidiva (in 18/30 casi dopo trapianto allogenico) o con refrattarietà primitiva.

La remissione completa è stata ottenuta in 27 pazienti (90%), inclusi 2 casi con malattia refrattaria al trattamento con blinatumomab, 19 dei quali ancora in remissione (in 15 casi senza nessun trattamento ulteriore) con un follow-up mediano di 7 mesi (range: 1-24 mesi). A 6 mesi, il tasso di sopravvivenza libera da eventi è stato pari al 67% e la sopravvivenza globale pari al 78%. Il principale effetto collaterale associato all’infusione delle cellule chimeriche è stato la comparsa di “cytokine-release syndrome”, osservata in tutti i pazienti e che è stata grave nel 27% dei casi (particolarmente nei pazienti con larga massa di malattia). Inoltre, in 13 pazienti sono stati osservati eventi avversi neurologici (da delirio a encefalopatia, tutti risolti spontaneamente).

«Tentativi di ingegnerizzare linfociti T per ottenere l’espressione di anticorpi chimerici diretti versi antigeni tumorali sono stati effettuati per più di 20 anni», scrivono gli autori dello studio, «ma i progressi clinici sono stati limitati dalla scarsa espansione in vivo delle cellule modificate e dalla loro corta persistenza dopo l’infusione. Nel nostro studio, abbiamo osservato una persistenza prolungata dei linfociti chimerici e dell’aplasia B cellulare fino a 2 anni dopo l’infusione. I risultati ottenuti sono particolarmente incoraggianti in una categoria di pazienti a prognosi significativamente sfavorevole, nei quali remissioni complete non vengono osservate in più del 20-40% dei casi e la sopravvivenza a lunga termine è molto scarsa».

Fonte: New England Journal of Medicine